Un anno di sport. Con tre addii

Quando ero ragazzino, e di sport in tivù se ne vedeva molto meno (non era necessariamente un male), il programma di fine anno che in un’ora raccontava per immagini tutti i fatti dell’anno lo aspettavo e facevo di tutto per non perdermelo (non c’erano neanche i videoregistratori, pensate!).
Ecco, lo dovessi preparare oggi queste sono, per ogni trimestre, le storie che possono raccontare il nostro anno di sport (e anche noi e la nostra società, mi pare).

Primo trimestre: Roger e Serena
Gli Australian Open non sono il torneo più importante dell’anno né il più seguito, ma quest’anno ci hanno dato una doppia storia, umana prima che sportiva, unica.
Roger Federer non vinceva più un grande torneo dal 2012. A trentacinque anni e mezzo lo tenevamo lì come una specie di testimonianza. L’ultimo giocatore di classe pura in uno sport peggiorato e reso più noioso dalla tecnologia. Era uscito dai primi dieci al mondo dopo quindici anni, ci preparavamo insomma con mestizia alla sua festa della pensione. Invece, boom!, vince la finale battendo il solito rivale Nadal, segnale della sua stagione migliore in un decennio, in cui va pure a prendersi, come un re che torna trionfalmente dall’esilio, una volta ancora il “suo” Wimbledon.
Tutti i titoli sarebbero per lui se non fosse che Serenona (copyright Gianni Clerici) Williams, vincitrice del singolo femminile, annunciandoci qualche mese dopo (naturalmente sui social dove è protagonista) che doveva fermarsi per via della gravidanza, fatti due conti ci fa pure scoprire che quando ha vinto a Melbourne Park già aspettava, confermando una volta ancora di essere un po’ più che umana.

Secondo trimestre: il portierino e Fausto l’immortale


Lo scherzo del primo aprile, purtroppo venuto benissimo, nel 2017 lo ha fatto il portierino a tutta una città, o almeno a tutto il popolo grigio, che alle sofferenze è pure abituato ma quest’anno ne ha vissuta una che difficilmente dimenticheremo, e che a oggi non abbiamo certo superato. È stato uno stillicidio il 2017 grigio ma il simbolo, il momento in cui quel che stava succedendo è stato evidente e inevitabile, ci si è palesato davanti agli occhi al maledettissimo nono minuto del secondo tempo della partita del primo di aprile quando (come sta scritto sul loro sito web: sì, davvero, ne hanno uno!): “la Giana raddoppia in maniera pazzesca: il portiere dell’Alessandria, pronto per il rinvio dal fondo, appoggia palla a terra ma attende, credendo che il gioco sia fermo; Bruno approfitta dell’incertezza di Vannucchi e…”.
A maggio una tappa del Giro d’Italia è partita da Castellania. Ho avuto modo di vedere quanto il Giro, quanto il ciclismo siano ancora straordinariamente popolari, nel senso più proprio del termine, ho visto le migliaia di persone radunarsi lì, per una festa, un affollatissimo picnic sull’erba, nel nome di campioni e di gregari amati per il grande sforzo che ogni giorno fanno, avvertiti come normali “vicini di casa” in un’era in cui per esempio i grandi del calcio o dell’automobilismo sono distanti come divi del jet-set. Mentre, quasi sessant’anni dopo la sua fine terrena, resta unico l’amore sconfinato nel ricordo davvero immortale, e trasmesso di generazione in generazione, di Fausto Coppi

Terzo trimestre: Leo, lo zar e Usain
Il grande colpo di luglio è stato, a sfogliare le prime pagine dei giornali sportivi, letti più durante il calciomercato che negli altri mesi, il passaggio di Bonucci al Milan dalla Juventus, dove era considerato il più forte dei difensori (Bonuccembauer), per venire subito declassato a principale colpevole della pesante sconfitta nella finale della Champions (una ferita che ancora fatica a rimarginarsi). Una operazione di mercato che, per ora, ha visto perdere tutti quanti.
Negli stessi giorni, sfogliando le pagine interne, era un chiaro segno dei tempi l’esclusione dalla nazionale del nostro più forte pallavolista, lo zar Zaytsev. Fuori dagli Europei per una decisione non tecnica, dovuta a una diatriba sulla sponsorizzazione dei suoi scarpini da gioco. E quindi fuori l’Italia molto male dagli Europei. Figuraccia il titolo dei giornali dopo la débâcle contro il Belgio. Una sconfitta cercata, per ragioni meschine, in un anno che come vedremo si chiuderà per il nostro paese con la più meschina delle sconfitte sportive.
Ma noi siamo solo “un’espressione geografica” (copyright von Metternich) nel mondo.
Mondo ad agosto tutto concentrato a guardare l’ultima passerella di Usain Bolt, forse il più grande corridore veloce della storia. Che a Londra doveva salutarci voltandosi ancora una volta indietro a osservare gli avversari battuti, ed invece se ne è andato zoppicando, incapace di tagliare il traguardo dell’ultima gara. Le mitologie si basano anche sulle sconfitte, d’altronde.

Quarto trimestre: la Zanda e “Sventura”
Cecilia Zandalasini, una ragazza di ventun’anni nata a Broni, neanche troppo alta (1 metro e ottantacinque) ha vinto il titolo della NBA femminile, il massimo risultato per un cestista. Simbolo la Zanda di tante giovani ragazze che, lontano dalla luce dei riflettori, con grande sacrificio, ogni giorno si allenano per ottenere risultati eccezionali.
Mentre gli azzurri del calcio riuscivano a non qualificarsi ai campionati mondiali, dopo quattordici edizioni consecutive di cui due vinte. Sotto l’ineffabile guida del duo Tavecchio e Ventura, due anzianotti evidentemente lì per relazioni (poco chiare) e non per meriti. Infatti prima ancora dell’imbarazzante spareggio coi mediocri svedesi, la partita del Bernabeu in cui la Spagna ci ha umiliato dimostrava che avere vinto anni fa un campionato con l’Entella palesemente non fa sufficientemente curriculum per allenare in modo competitivo una delle nazionali più quotate del mondo.

Extra: Tre addii

Sadness, hope and comfort, dice la didascalia di una foto, esposta al museo di Amsterdam. Una foto scattata quest’anno. Non è lì perché è un’opera d’arte, è lì per quello che significa: “tutte le divisioni visibili e invisibili che separano le persone di questa città di colpo vengono meno”, dice ancora la didascalia. La foto mostra un uomo, mussulmano, che si sporge dal tetto di una Mercedes bianca. Il suo atteggiamento racconta il dolore infinito che sta provando. Attorno a lui, un gran numero di persone. Lui è il padre di Abdelak Nouri, Appie come tutti lo chiamano, un ragazzo di vent’anni, di origine marocchina, cresciuto a Geuzenveld, un quartiere povero di Amsterdam. La fotografia racconta una storia un po’ diversa da quella che, in questo periodo, ci si potrebbe immaginare. È stata scattata a luglio. Il giorno prima il bollettino medico su Appie diceva che purtroppo su di lui c’erano le “peggiori notizie possibili”. Eppure, solo pochi giorni prima Nouri era uno dei giovani campioni più promettenti del sempre ricco vivaio dell’Ajax, il nuovo Iniesta secondo i suoi allenatori, e infatti il Barca lo seguiva attentamente. Oltre che un ragazzo amatissimo nella sua comunità, ambasciatore della scuola in cui i “lancieri” lo avevano mandato, sempre generoso con i vicini che popolano Geuzenveld. Il cuore generoso di Abdelak Nouri però aveva deciso di smettere di battere, senza alcun preavviso, durante il secondo tempo di una amichevole estiva, e i lunghi minuti in cui il suo cervello è stato senza ossigeno lo hanno lasciato con danni gravissimi e permanenti. Il fratello Abderrahim, in una bella intervista al Guardian racconta (sono in sette, i Nouri, quattro sorelle e tre fratelli) che grazie alla fede non provano tristezza nelle giornate che trascorrono a fianco ad Appie, anche se il suo sorriso e il suo entusiasmo mancano a tutti loro.
Anche il Testaccio è un quartiere popolare. Se nasci lì, ti conviene essere romanista. Se nasci lì, e hai la fortuna di andarci a giocare, nelle giovanili della Roma, quella maglia giallorossa ti resta proprio addosso, attaccata alla pelle. Infatti Francesco Totti quella maglia non se l’è levata mai, neanche adesso che ha smesso di giocare. Lanciato nel calcio della serie A da un romanista doc come Carletto Mazzone (cui si deve peraltro anche buona parte del successo di un altro straordinario campione che ha smesso quest’anno, Andrea Pirlo), Totti ha iniziato a giocare con gente che adesso ha più di cinquant’anni, e smesso quando già esordiscono ragazzini poco più grandi dei suoi figli, nati nel nuovo millennio. Anche per lui vale quello che spesso diciamo: si guardasse la bacheca dei trofei, la sua carriera sarebbe al massimo buona (soprattutto per il mondiale del 2006, dove peraltro l’unico momento in cui fu davvero protagonista è il rigore segnato praticamente allo scadere di un ottavo di finale contro l’Australia più intricato del previsto). In realtà è stato uno dei più talentuosi giocatori di sempre, invecchiato come un vino pregiato, e diventato man mano oltre che protagonista in campo anche esempio per tanti fuori dal campo. Il suo non è un addio tragico (be’ per i tifosi della Roma sì) ma la mancanza del Totti calciatore la sentiremo parecchio.


Bradley Lowery, un ragazzo appunto di questo millennio, il gol del mese della Premier League l’ha segnato ad appena sei anni, l’altro inverno. Un rigore calciato prima della partita con il Chelsea, indossando la maglia del Sunderland, di cui era tifosissimo. Bradley sarebbe stato solo un altro dei bambini che all’inizio di una partita entra in campo per mano a un calciatore, in questo caso Jermain Defoe, attaccante anzianotto di cui si diceva cha avrebbe fatto più carriera non fosse stato un “ladies’ man”. Da quando aveva pochi mesi, però, il destino di Bradley l’aveva cambiato un neuroblastoma, rara forma di tumore. E, di nuovo, lo ha cambiato il fatto che, con il suo travolgente entusiasmo (anche se tutte le sue giornate erano caratterizzate dai tremendi dolori che la malattia gli procurava) ha subito conquistato Defoe, che da quel giorno è diventato il suo migliore amico, e quella di Defoe è stata la mano che Bradley ha tenuto, con orgoglio, entrando nel mitico Wembley prima di una partita della nazionale inglese, a marzo. Quella di Defoe è la spalla su cui Bradley si è addormentato, a casa o più sovente all’ospedale, quasi ogni notte. Fino alla fine, fino a quel 7 luglio in cui Bradley non ce l’ha fatta più. Un lutto che ha colpito l’intera comunità calcistica, soprattutto quella inglese. Un lutto che ha segnato più di tutti proprio Defoe. E il calciatore di origine dominicana, anche lui cresciuto in un quartiere popolare a Londra, è ora diventato il simbolo del fatto che anche i calciatori possono non essere solo “macchine donne e denari”, ma anche grandissima capacità di puro amore.